Enniskillen, Irlanda del Nord
29 Dicembre 2003
di Stefano Cherchi
Non mi sembra vero: finalmente incontro di persona i primi speleologi irlandesi, quelli che sinora erano solo indirizzi e-mail e voci al telefono fra le mille peripezie di un roaming internazionale capriccioso. Lorraine e Jacky, appena arrivate col pullman da Dublino, mi accolgono a nome del nutrito ed eterogeneo gruppo degli “Irish Drunken Cavers” che avrò modo di conoscere nei giorni seguenti. Facciamo un po’ di spesa e prendiamo un taxi che ci porta sino alla Community Hall di Boho, ad una decina di miglia da Enniskillen. Cerco di informarmi meglio, lungo il tragitto: mi pare di capire che il posto verso cui siamo diretti sia una sorta di equivalente irlandese del nostro Supramonte. Boho non è nemmeno un paese, è solo un’area piuttosto isolata nella quale sorgono sporadicamente cottage e fattorie. Le uniche strutture pubbliche dell’intera area sono il McKenzie Pub (ovviamente) e la Community Hall, una sorta di “oratorio” laico con una grande palestra, un palcoscenico per le recite scolastiche, un’aula ricreativa per i bambini ed una cucina ben attrezzata.. Tutto intorno, boschi ed il rumore del fiume a fondovalle. E’ qui, alla Boho Community Hall, che gli speleo da tutta l’Irlanda si danno appuntamento durante le feste di Natale ed in altre occasioni per incontrarsi ed infangarsi. Infatti Boho, nella contea di Fermanagh, è, assieme alla Contea di Clare sulla costa Atlantica (che ospita la grotta chiamata Poulnagollum-Poulelva, la più grande d’Irlanda coi suoi 15km di sviluppo e 140 metri di dislivello complessivo), l’area con la maggior concentrazione di grotte di tutta l’isola. Le più note al vasto pubblico, in quanto parzialmente turistiche, sono le Marble Arch Caves. Alla Hall faccio la conoscenza di Stevie Mo, Stevie Bus (anche qui, mi spiegano, c’è una singolare sovrabbondanza di miei omonimi), Nigel, un altro “forestiero” in visita qui da Manchester, ed alcuni altri. Sembrano non inquadrare immediatamente la collocazione geografica della nostra isola (la confondono spesso con la Sicilia) ma per alcuni l’associazione Sardegna/Su Palu è automatica, e ne parlano come di un sogno da realizzare. Cena leggera, pub (pesante), e per domani mattina già si programma la prima uscita. L’idea è di affrontare direttamente Noon’s Hole, un pozzo di un centinaio di metri in tre salti successivi, che prosegue con diversi chilometri di cunicoli alla base.
Detto fatto, il 30 ci svegliamo con una sorpresa, oltre ai postumi della sbornia: durante la notte il cielo d’Irlanda, notoriamente dispettoso, ci ha scaricato addosso dieci centimetri di neve e Noon’s, mi dicono, starà inghiottendo acqua come il Mar Rosso che si richiude dopo l’Esodo. Niente da fare, dunque. Ripieghiamo sulle Boho Caves, una delle poche grotte orizzontali della zona, un complesso di circa 3 km di cunicoli parzialmente allagati con numerosi ingressi a poca distanza dal “campo base”. Tentiamo il primo ingresso, una risorgenza un tempo trasformata in vascone per l’approvvigionamento idrico della zona. Qui troppa acqua. Dopo un breve trekking nella neve ci infiliamo in strettoia in un altro ingresso. La mia prima grotta irlandese, che emozione… Vediamo se il pianeta cambia faccia anche sotto la superficie. In pochi metri siamo nella galleria principale, un corridoio ampio e tortuoso che l’acqua ha eroso nel calcare bianco fra due strati sovrapposti di scuri basalti. E l’acqua, qui, sembra abbia l’abitudine di irrompere senza chiedere permesso, a giudicare dagli scallops sulle pareti, dall’assenza di concrezioni e dai molti detriti organici sparsi dovunque. Proprio tutto questo materiale trascinato dalla furia dell’acqua, decomponendosi, crea uno strano odore di sottobosco che non avevo mai sentito in una grotta. Addentrandoci la galleria inizia a stringersi e ad allagarsi. Poco dopo, purtroppo, sono costretto ad abbandonare zaino e macchina fotografica. Il mio disappunto nell’affrontare alcuni passaggi decisamente al limite della praticabilità, che esprimo in maniera poco fine, un po’ in italiano e un po’ in inglese, suscita l’ilarità dei miei compagni, che mi chiedono di tradurre. E’ iniziato lo scambio culturale… Saliamo poi per qualche metro in opposizione su delle splendide colate color crema, per sbucare in un ambiente sopraelevato dove un intenso stillicidio ha creato alcune belle eccentriche ed una selva di piccole stalattiti. Una di queste ci riserva una sorpresa: una vecchia piena, arrivata sin quassù, ha depositato una foglia sulla superficie della concrezione, poi lo stillicidio ha ricoperto di calcare anche questa, trasformandola in una sorta di piccolo fregio corinzio in bassorilievo. Quando usciamo, ricoperti di fango da testa a piedi, i due Stevie ripuliscono le loro tute in PVC semplicemente rotolandosi nella neve fresca, io e Nigel, invece, saremo costretti ad una doccia ghiacciata in cortile con la pompa, in perfetto stile da carcere politico siberiano, prima di essere riammessi al caldo della Hall.
La mattina del 31, sotto un cielo che non promette niente di buono, prepariamo l’attrezzatura e facciamo rotta verso Prod’s Pot. La grotta, a circa dieci miglia dal campo base, ha uno sviluppo verticale iniziale di una cinquantina di metri, articolati su cinque salti collegati da brevi segmenti orizzontali, poi prosegue con altri 4 chilometri di sviluppo su diversi livelli. L’intera cavità iniziale è, di fatto, un’unica poderosa diaclasi, piuttosto stretta, che scende verso il cuore della montagna con l’asse verticale sensibilmente inclinato verso sinistra. Raggiungiamo il piccolo ingresso al termine di una camminata di una mezz’ora, lottando con un vento gelido che, incanalandosi nella sella fra due alture crea uno spaventoso effetto Venturi. La pioggia non cade: corre letteralmente parallela al terreno. Mi imbuco nell’ingresso e, alla base del primo salto di una decina di metri, tutte le mie speranze di restare asciutto si infrangono. Ai miei piedi scorre un torrentello impetuoso che la grotta inghiotte con un rombo poco rassicurante. Seguo il corso dell’acqua, un po’ in opposizione sulle pareti inclinate, un po’ strisciando con lei nelle strettoie grigie e ruvide, sino al secondo e poi al terzo salto. La terza calata, parzialmente nel vuoto, proprio accanto alla cascata che mi sferza la faccia quando guardo in su per ammirarla, mi porta in un ambiente un po’ più ampio, dove trovo Stevie Mo che, riluttante, mi comunica che dobbiamo tornare indietro. Il quarto salto è impraticabile: ne viene giù troppa. Al posto del solito “rope free” grido agli altri di non scendere, monto croll e maniglia e risalgo sotto l’acqua, un po’ deluso.
La sera di S. Silvestro ceniamo tutti assieme nella bella cucina della Community Hall. Nel frattempo sono arrivati anche gli ultimi ritardatari un po’ da tutti i Caving Club d’Irlanda. Qui i Gruppi Speleo non sono libere associazioni di squilibrati con la fissa del fango che si autofinanziano, sono tutti Club universitari foraggiati dall’Ateneo stesso, quindi molti degli appartenenti, studenti fuori porta, erano a casa per le feste e solo all’ultimo si sono uniti alle celebrazioni collettive. Provo a ricambiare la gentilezza e la disponibilità dei miei ospiti cucinando per loro e faccio del mio meglio per convincerli che nell’acqua della pasta ci va il sale, cosa che li lascia tutti incomprensibilmente perplessi, ma NON l’olio, che loro sono soliti aggiungere durante la cottura (???). Fortunatamente il ragù che ho messo insieme coi pochi ingredienti reperibili in zona, incontra i loro discutibili gusti alimentari, e l’onorabilità della cucina italiana è salva. Il resto della serata, in attesa dell’anno nuovo, la trascorriamo, fra Guinness e freccette, al McKenzie Pub.
La mattina successiva, ovviamente, nella grande palestra della Community Hall dove dormiamo nei sacchi a pelo, ci sono una ventina di cadaveri col cerchio alla testa e nessuna voglia di andare in grotta, ma nel pomeriggio la situazione si sblocca e decidiamo di ritentare Noon’s Hole. Forse il terreno ha smesso di drenare e si potrà entrare. Arrivati sul posto, la speranza si vanifica: evidentemente le precipitazioni, nei giorni precedenti al nostro arrivo, sono state imponenti, e ci vorranno ben più di un paio di giorni per smaltire tutta l’acqua. Non ci diamo per vinti e ripieghiamo su un’altra zona: dopo poche miglia attraversiamo un paio di proprietà private ed arriviamo ad una vecchia fattoria, ora abbandonata, che gli amici speleologi hanno lucchettato ed utilizzano come punto di appoggio per un paio di grotte situate a poca distanza. Ci cambiamo nella casetta decrepita e ci dividiamo in due gruppi. Io, Stevie Mo e John andremo a Pollasillagh, gli altri si dirigono verso John Thomas Cave.
L’ingresso di Pollasillagh è una strettoia verticale preoccupante fra grossi massi di frana, al termine della quale bisogna centrare, quasi alla cieca, un piccolo cornicione di una quindicina di centimetri che strapiomba per cinque metri nel vuoto. In fondo allo strapiombo, il fiume sotterraneo che romba come un reattore. Disarrampicando su altro materiale di frana alla sinistra del cornicione arriviamo al fiume, di cui seguiamo il corso per un po’, prima di infilarci in una strettoia che si snoda per una ventina di metri in mezzo al fango. Per la prima volta da quando ho iniziato questa attività vedo un fenomeno che non credevo fisicamente possibile: non solo il pavimento di questo cunicolo è fatto di fango, ma anche le pareti ed il soffitto! Il resto della grotta è un sistema di condotte circolari disposte su più livelli, che chiudono su una frana di grossi massi in un labirinto tridimensionale di cui solo il fiume conosce i segreti.
Quando torniamo alla casetta per cambiarci, l’altro gruppo non si vede ancora. Stevie mi suggerisce di preparare la macchina fotografica per documentare le condizioni degli sfigati che, mi spiega, si sono infilati in una delle grotte più fangose d’Irlanda. Quando Stef, Rob, Laura e gli altri emergono dalla notte ormai fatta stento a credere ai miei occhi. Credo che la foto parli da sé…
Il giorno seguente è giorno di commiati. Molti vanno via la mattina subito dopo colazione, altri decidono di tornare in grotta. Io, non potendo partire con l’attrezzatura inzuppata da un’altra uscita, sono costretto a dare forfait. Tergiversiamo nella Hall per un po’, vagamente riluttanti ad ammettere che la vacanza è finita, poi ci salutiamo e tutti fanno rotta verso le loro vite normali con la promessa di ricambiare presto la visita. A me resta qualche giorno di vacanza, e devo ancora decidere cosa farne. Malcom mi da uno strappo sino ad Enniskillen volando basso a 40 miglia all’ora per le stradine dissestate di Boho col suo van scassato. Arrivato sano e salvo (non so come) alla guesthouse, faccio mente locale davanti ad una tazza di the mentre mi ingozzo con gli inarrivabili pasticcini della signora Noble, la deliziosa padrona di casa. Tre grotte in quattro giorni… Di fango ne ho visto abbastanza. Decido di dirigermi a nord, verso Portrush. Prima di tornare a casa ho voglia di vedere l’Oceano.