Torre della Pegna (Alghero, SS)
1° Febbraio 2004
L’essenza della ziminadda
di Stefano Cherchi
Anche senza andare a scomodare l’Accademia della Crusca, uno vede il suffisso greco e pensa che si tratti, effettivamente, di una scienza, con tutto il suo contorno di sostenuto rigore formale e metodologico. Poi, una domenica di febbraio si ritrova catapultato nel nucleo caldo della cionfra e scopre che, per fortuna, le cose non sono sempre come sembrano.
L’appuntamento è al solito distributore alle 8.45. Il presidente, oggi particolarmente in forma e con la preziosa collaborazione dell’ottimo Skintu, straccia tutte le sue precedenti, e rinomate, performance stabilendo un nuovo primato con ben 50 minuti di ritardo.
Dopo l’esame anti-doping è risultato pulito alla valeriana e ad altre sostanze anti-fretta, confiderà che conta di arrivare in tripla cifra entro l’anno. Forza, sappiamo che ce la puoi fare. Non domi, cazzeggiamo ulteriormente nel piazzale semideserto del belvedere di Capocaccia per un’altra mezz’ora.
Con 4 ore di sonno al mio attivo, il solo pensiero che avrei potuto puntare la sveglia un’ora più tardi e nessuno si sarebbe accorto della differenza mi fa annebbiare la vista.
Quando finalmente ci incamminiamo verso Torre della Pegna sono le 11.10. Più che una spedizione speleologica sembra una gita dell’INPS: ci si ferma ogni tre passi, vuoi per rianimare quelli fra noi il cui rapporto con la forchetta è migliore di quello con le scarpe da trekking, vuoi per il semplice gusto di prendersela comoda e godersi un panorama che, almeno per il sottoscritto, ha pochissimi concorrenti al mondo.
La grotta che stiamo andando a rilevare, in effetti, non avrebbe potuto essere altrove: verticale, imponente e spettacolare, si sposa alla perfezione con la maestosità della falesia sul cui fianco apre i suoi due ingressi, come due grandi occhi scuri puntati al cielo. Per la seconda volta in due settimane mi calo nel grande pozzo. Questa volta mi metto alla ricerca dei caposaldi (già piazzati anni fa nella realizzazione di un primo rilievo) per effettuare le misurazioni. Mentre indago la parete in cerca dei puntini di vernice rossa rimango di nuovo affascinato dalle belle, imponenti colate che ornano tutta la cavità, sfumando dal verde dell’ingresso illuminato al rosso dell’argilla sul fondo. Dalla piccola base, dove il pozzo si congiunge finalmente col suo gemello, mi godo lo spettacolo solenne di questi due grandi ambienti verticali perfettamente paralleli, inondati dalla luce esterna che pare aderire, fluida, alle rotondità delle grandi concrezioni umide, per poi colare giù assieme all’acqua.
Ma in breve l’estatica ammirazione per questo magico contesto viene offuscata da altri, ben più terreni, sentimenti: infatti, quando sto per toccare il fondo del secondo pozzo, sbaglio clamorosamente la misura del terreno e impatto con la tibia sulla parete svellendo venti chili di roccia. Ovviamente fingo una maschia indifferenza, mentre elenco a mente tutti i Martiri del calendario, con epiteti che la Santa Sede non approverebbe di buon grado.
Mentre io, Francesco ed i due Marchi lavoriamo di bussola e bindella, gli altri due Stefani si danno alla macchia in ricerca esterna per un po’, poi cedono alle lusinghe della fame e si scofanano in solitaria, bontà loro, le pennette al salmone dello Skintu. Non si è ancora sopito l’eco della masticazione collettiva, che il sottoscritto riemerge stremato dal pozzo dopo una dura battaglia con un frazionamento al quale mancavano solo mollette e reggiseni per essere del tutto indistinguibile da uno stendibiancheria. Altra processione di Santi, ed imperitura gratitudine ai miei istruttori, che hanno lodevolmente provveduto ad incasinarmi la risalita, a scopo, ne sono certo, squisitamente didattico. Appena gli occhi si abituano al buio faccio due conti e… Ma chi sono questi due in più?? Giacomo e Andrea sono spuntati dal nulla, probabilmente attratti dal profumo del banchetto appena consumato e, poco dopo, scompaiono di nuovo nell’oscurità e nella nebbia alzatasi repentina sulla falesia. Ancora oggi mi domando se erano lì davvero o se non sia l’acetilene ad avere effetti lisergici su di me.
Essendo stati esclusi dal precedente convito, a noi appena usciti dalla grotta tocca arrangiarci con le nostre scorte alimentari, per recuperare le forze. Per fortuna, da esperti escursionisti quali siamo, non ci facciamo mancare niente: ben due panini (in quattro), in cui far entrare a spinta mezzo chilo di gorgonzola, del prosciutto scaduto (grazie Fra, se non ci fossi tu), e 25cl d’acqua perché i restanti 175 sono serviti per spegnere il fuoco…
A chiosa di cotanta, delirante, giornata potevamo forse evitare l’umiliazione di perderci sulla via del ritorno? No! E infatti. Memore dell’epica cinghialata al buio della settimana precedente, faccio di tutto per tenermi vicino al bordo della falesia, lungo il quale si snoda una pallida traccia di sentiero. Riesco quasi ad orientarmi sino a Cala d’inferno, poi, come spesso accade, un sassolino provoca la frana: Gianfranco emette il primo fonema della giornata, per dirmi “Mi pare che gli altri siano andati di là”. Ma “di là” ci allontaniamo dal bordo… Comunque, spaesato e nient’affatto convinto che la mia direzione sia più giusta della sua mi butto a sinistra. Venti minuti dopo, siamo praticamente incastrati in un intrico inespugnabile di rami e tronchi. Lo sfrigolio della lampada ad acetilene che brucia la resina dei pini sopra la mia testa, mentre annaspo per uscire da questo casino arboreo, si confonde col mormorio della preghiera con la quale imploro il Grande Architetto di non farmi arrostire vivo in quello che verrebbe ricordato come “Il rogo del grande pirla”. Mi sento come una mosca presa in una ragnatela… Quando, finalmente, ritroviamo un terreno percorribile siamo quasi a Cala Dragunara. Gli unici rumori che riesco a distinguere, sopra il fruscìo della risacca, sono le grida di dileggio degli altri che, già alle macchine da un pezzo, ci indicano la strada…
Dedicato a tutti quelli che si divertono facendo “fitness”… Restatevene pure dentro i vostri scatoloni di cemento, ragazzi. A noi, qui fuori, non piace la ressa.
Stefano Cherchi